giovedì 16 dicembre 2010

Il burattinaio

L’altro ieri dalle parti di casa mia faceva freddo, ma al centro di Roma c’era molto caldo. E non ho capito perché. Non ho capito perché si debba usare violenza per protestare contro un voto in Parlamento, che è una espressione di democrazia.

Per mia fortuna, abito fuori del raccordo anulare e gli avvenimenti di Roma-centro li seguo solo alla televisione. Qui da me è come se fosse un paesino, con il vantaggio di poter prendere la Metro e in qualche decina di minuti essere al centro della Città Eterna.

Lì dove mi piace andare a passeggiare, guardando le vetrine (via del Corso, via Condotti…), ho visto scene di violenza che non hanno alcun senso in una civiltà democratica alla quale abbiamo la presunzione di appartenere. Capisco i cortei, capisco i cartelli, capisco le proteste, ma perché usare cartelli stradali divelti per rompere vetrine? Perché dare fuoco ad autovetture di Forze dell’ordine e di civili?

Civile è chi manifesta il proprio dissenso in modo civile, non chi dà fuoco alle automobili. E poi, se ho capito bene, l’altro ieri in Parlamento si doveva esprimere sulla fiducia al Governo. E qual è il problema? Perché protestare contro un atto di democrazia? La protesta contro un atto di democrazia è una anti-democrazia.

Sto leggendo una Breve storia del fascismo di Renzo De Felice e, a guardare quelle immagini alla televisione, mi sono venute in mente le cosiddette "squadracce" che imperversavano negli anni Venti. Stiamo andando avanti o torniamo indietro? Siamo in democrazia o vivono ancora tra di noi frange di violenti che approfittano di qualunque occasione (politica, sport…) per dare sfogo al loro odio nei confronti del mondo?

Fermo restando il fatto che non ci ho capito niente di questa crisi politica (perché nessuno me l’ha spiegata bene) io mi chiedo una semplicissima cosa: se è vero che al di sopra di ogni burattino c’è un burattinaio, chi è il burattinaio di queste manifestazioni di violenza alle quali abbiamo assistito due giorni fa a Roma?

sabato 11 dicembre 2010

Reginella



Avevo quattordici anni e abitavamo a Roma, quando a Napoli mamma (eravamo andati lei e io a trovare il nonno) con i suoi risparmi mi comprò la mia prima chitarra. Costò quattordicimila lire. Fu tra i più bei regali della mia vita, in primo luogo perché venne da mamma, poi perché dette vita a una mia primaria passione: il canto.

La prendemmo dai Cimmino in via Santa Brigida. I Cimmino erano stati dirimpettai del nonno (abitavano di fronte a lui sullo stesso pianerottolo al numero 25 di vico Rosario di Palazzo); erano una famiglia di musicisti e avevano aperto lì un negozio di articoli musicali. A mio padre fu destinata una bugia: mamma gli disse che la chitarra me l’aveva regalata il nonno, per non farlo arrabbiare a causa dei soldi spesi.

Cominciai a imparare i primi accordi e tra i primi il ‘giro del do’ (Do, La-, Re-, Sol7). Con quella serie di quattro accordi imparai le prime canzoni: quelle di Gino Paoli. Più tardi passai a Fabrizio De André. Qualche tempo dopo comprai i dischi ‘long playing’ dal numero 5 al numero 8 della raccolta ‘Napoletana’, che era stata pubblicata da Roberto Murolo in 12 dischi, con la collaborazione del chitarrista Eduardo Caliendo, nel 1963. Lì nacque e si sviluppò la mia passione per la canzone napoletana.

Reginella (così come tutta la canzone napoletana) ha accompagnato la mia vita e ancora oggi, quando ne ascolto le note recitate-cantate da Roberto Murolo, mi assale una commozione. Murolo ha insegnato al mondo che la canzone napoletana si può cantare anche a mezza voce e non c’è bisogno di esibirsi in drammatici acuti per farla apprezzare. E’ un dire ‘Ti amo’ senza urlare, ma sottovoce.

Chissà quante volte ognuno di noi ha volto il pensiero alla sua Reginella del passato! Chissà quante volte a quella del presente! A me è accaduto e accade ancora. Mi sono fatto l’idea che chiamare una donna ‘Regina della mia vita’ sia la massima aspirazione per un uomo, ma forse questa è solo una mia idea: romantica, idealista, sognatrice, al di fuori dei tempi. Ma se è così, così sia. E allora fatemi prendere la mia chitarra e lasciatemi solo a cantare ancora una volta per la mia Reginella.

mercoledì 8 dicembre 2010

Coccole

E’ di Giovanni Pascoli la teoria del ‘fanciullino’ che c’è in ognuno di noi. Io l’ho estesa. Penso che in ognuno di noi ci siano tutte le età che abbiamo vissuto, per il semplice fatto che le abbiamo vissute; quindi sono in noi. Così un giorno posso sentirmi sessantunenne, maturo, vissuto, con esperienza tale da poterla condividere con altri; un altro giorno quarantenne, pieno di energie e con voglia di costruire ancora qualcosa; e ancora un altro ventenne, con il desiderio di imparare dagli altri, anche a vivere, e attingere dalla esperienza di chi mi è vicino.

Talvolta posso sentire di avere cinque anni e avere bisogno di coccole. Accidenti che guaio! Quando sono arrivato a una certa età il mondo ha deciso che ero diventato grande e nessuno più ha sentito il bisogno di farmi le coccole, così come avveniva quando ero bambino. Eppure – secondo me – è una esigenza primaria quella delle coccole. Conosco un signore che alla moglie le chiede spudoratamente. Ed è un signore che ha quasi cinquant’anni.

Le coccole sono un atto d’amore. Sono una carezza, un abbraccio, una parola dolce sussurrata guardandosi negli occhi, uno sguardo, un sorriso. E’ pur vero che la regola della Carità cristiana mi dice che è mio compito dare amore senza nulla chiedere in cambio, nemmeno un ‘Grazie’. Ma è forse un peccato desiderare una briciola d’amore? La coccola è una briciola d’amore, che nutre. Così come le briciole che scuoto dalla tovaglia sul balcone di casa. Sembra che non servano più; eppure, dopo un po’ di tempo arriva un passero e se ne nutre.

Ho un’amica (praticamente una sorella) con la quale, quando ci vediamo, ci scambiamo le coccole. No, no, non è sesso; non c’entra niente con il sesso. Le nostre coccole consistono nel parlare e ascoltare. Mi ha dato un grande piacere sentire dalle sue labbra uscire le parole: “Mi fa piacere parlare con te perché mi ascolti”. Ascoltare è un modo di fare le coccole alla persona alla quale si vuole bene. E anche se non le si vuole ancora bene perché non la si conosce abbastanza, è un modo di amare.

La stessa amica mi ha parlato anche della carezza che, secondo lei, è circolare: non ha spigoli. Accidenti se è vero! Gli spigoli sono quelle brutture contro le quali andiamo a sbattere (e ci facciamo male) quando il contatto tra persone non è quello che dovrebbe essere. La carezza no, non ha spigoli. E si può accarezzare in mille modi, non solo con le mani, ma anche con le parole, con lo sguardo, con la semplice attenzione. E’ fare le coccole.

Da quando ero bambino, e tutti mi davano le loro coccole, sono cresciuto. Ma solo ora, che sono grande, ho cominciato ad apprezzarle.

martedì 7 dicembre 2010

Dialogo

Com’è difficile dialogare! I media (la televisione in particolare) danno un cattivo esempio del dialogo. Assisto a scene in cui ognuno cerca di prevalere sull’altro. Persone che parlano tutte insieme. Aggressioni verbali. Uno scempio. A me piace, invece, ascoltare, intervenire quando il mio interlocutore ha terminato di parlare, scambiare opinioni, pareri, idee. E infine arricchirmi per il confronto degli intelletti.

Il dialogo lo immagino come due persone che stanno attorno alla Terra a una certa distanza. Se sono vicine, si raccontano quello che vedono e sono d’accordo su tutto, perché vedono le stesse cose. Se invece uno dei due si allontana e ruota attorno alla Terra di un certo angolo, vede cose diverse e le può dire all’altro, il quale, a sua volta vede anche lui cose diverse da chi si è allontanato. Il dialogo tra i due si fa più interessante, perché ognuno dei due può dire all’altro ciò che vede, che – in parte – è diverso.

Nel dialogo, la cosa più importante è l’ascolto. Quando si ascolta occorre azzerare il proprio cervello, eliminare tutti i preconcetti e i pregiudizi e ascoltare ciò che dice l’interlocutore. Dopo, una volta acquisito ciò che dice l’interlocutore, si può riprendere la propria parte di cervello e metterla a confronto con ciò che ha detto l’altro. Questo – a mio avviso – è l’inizio del dialogo.

Poi si esprime la propria opinione, che può essere condivisa o meno dall’altro, ma non importa: l’importante è riuscire a parlare senza che l’altro intervenga e tagli i nostri pensieri. E’ bello parlare a ruota libera senza l’angoscia di essere interrotti in ogni momento. A me questo dà l’angoscia. Sentire di essere interrotto mi dà un senso di oppressione che non mi fa proseguire con serenità.

Invece, trasmettere il proprio pensiero e riceve quello dell’altro con serenità è la cosa più bella del mondo. E’ un incontro tra cervelli e tra persone felici (oserei dire): trasmettere e ricevere. Quando si riesce a fare così, al termine della conversazione si è appagati tutti e due. Se invece il dialogo diventa una discussione, alla fine si è distrutti tutti e due.

La discussione – per come la intendo io – è il volere imporre all’altro il proprio pensiero. Questo modo di interloquire ha un solo risultato: lasciare due cadaveri sul terreno. Se io desidero imporre la mia opinione su un altro, desidero ucciderlo, uccidere la sua mente. E così è per l’altro. Alla fine siamo due morti. Non va bene.

Un paio di sere fa ho avuto una bella telefonata con una persona con la quale, se volessimo, non dovrei interloquire. Invece la lunga telefonata si è conclusa con un ‘Grazie’. Non avevamo discusso: avevamo dialogato. Il pensiero dell’una si era unito a quello dell’altra. E’ difficile riuscire a trasmettere il piacere che questa telefonata mi ha dato. Eppure è così. Il dialogo mi ha appagato. La discussione non avrebbe saputo fare altrettanto.

Ed è per questo motivo che, quando mi trovo a confronto di idee con qualcuno, che cerco prima di capire se lo stesso confronto può portare a un dialogo o a una discussione. Se è un dialogo, continuo; se è una discussione, me ne vado.

giovedì 2 dicembre 2010

Monicelli

Sono un po' frastornato e un po' impaurito. Quello che fino a ieri ritenevo un atto di disperazione ed era riportato dai Media come un “insano gesto” (il darsi la morte) è inneggiato addirittura come "scelta straordinaria, magnifica, eroica" da Paolo Villaggio. Ma ancor di più mi turbano le parole del presidente Napolitano che ha detto: "Mario Monicelli se ne è andato con un'ultima manifestazione forte della sua personalità, un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare".

Il presidente Napolitano è una persona per la quale nutro un grande rispetto (così come per Paolo Villaggio), ma le sue parole mi hanno turbato. Il signor Giorgio Napolitano ha facoltà di pensare e dire quello che più gli pare e piace, ma il presidente della Repubblica Italiana e capo delle Forze armate (per quanto mi riguarda) no.

Lo scatto di volontà - a mio avviso - è nell'avere la forza di vivere, anche quando il mondo ti crolla addosso e la disperazione ti prende. Per questo sono frastornato: perché la massima autorità costituzionale quasi inneggia al suicidio.

Sono impaurito, perché temo un ‘effetto domino’ in tante persone che soffrono e non sanno come risolvere i loro problemi. Proprio ieri ho sentito al telefono una persona che ha già tentato il suicidio e mi ha detto che, quando si ripresenteranno le condizioni e sarà libera di farlo, lo rifarà. Se questa soluzione viene rappresentata dalla massima autorità costituzionale come uno "scatto di volontà", ne sarà ancor di più incentivata.

Il mio eroe è un altro: è quello che dona la vita per la Patria, per un ideale, per consentire di vivere ad altre persone. Il mio eroe è il vice brigadiere dei carabinieri Salvo D'Acquisto, che con il suo sacrificio salvò la vita di 21 persone. Il mio eroe è il sacerdote francescano Massimiliano Maria Kolbe, che offrì la sua vita per salvare quella di un’altra persona nel campo di concentramento di Auschwitz. Il mio eroe è chi riesce ad affidarsi alla Divina Misericordia e porta la sua Croce ogni giorno.

mercoledì 1 dicembre 2010

Attila



Mio padre (Mario Rosario Bernardi, 1913-2000) perse la madre quando aveva nove anni. Si chiuse in sé e si appassionò di opere liriche. Mi diceva che le ascoltava con le cuffie tramite la radio a galena che si era costruito egli stesso. Ero adolescente quando mi ‘invitò’ a vedere l’Attila di Giuseppe Verdi al teatro dell’Opera di Roma.

Mi disse: "Prima di vederla la devi studiare, altrimenti non l’apprezzi". Così feci. La studiai per un paio di giorni e me ne appassionai. Scoprii Verdi e il suo modo di fare musica. Il preludio all’opera mi risulta fantastico, ma ancora di più mi sembra l’attacco del primo atto: una musica modernissima.

Ero già andato con mio padre all’opera, la prima volta al Teatro San Carlo di Napoli, praticamente attaccato al Palazzo Reale. Vidi con lui Carmen, di Bizet. Ricordo ancora oggi i magici momenti dell’opera. Mi sembrava di essere grande, così come le altre persone che seguivano le note dell’autore.

Attila fu la nona opera di Verdi e non ebbe un gran successo alla sua prima rappresentazione. Non è nemmeno rappresentata con tanta frequenza. Eppure è bellissima. E’ il Verdi che esploderà poi con le cosiddette opere popolari: Traviata, Trovatore, Rigoletto.

Oggi per me Attila è uno spezzone della mia vita. Un brano della mia adolescenza. Quando ascolto il preludio, una magica atmosfera si inserisce nel mio animo. Sogno. Vibro. Canto. E la musica mi dà quella emozione che provai quando ero adolescente. Vivere a 61 anni da adolescente non è male.

mercoledì 24 novembre 2010

Mi piace vivere


"Mi sono vista dall’alto mentre ero sul letto in coma", così mi ha detto un’amica, che in un altro momento della sua confessione ha aggiunto: "Ho incontrato mia madre e mia nonna. Nonna era giovane, come non l’avevo mai vista, ma l’ho riconosciuta. Mamma mi ha detto che non poteva ancora venire da me". Ci credo a quello che mi ha detto l’amica. Di testimonianze come queste ne ho avute altre due o tre. Sono anche studiate da quella categoria di medici non presuntuosi, che ritengono che ogni esperienza vada studiata per quella che è, con curiosità.

Quello che le ha detto la mamma è chiarissimo. In primo luogo, è chiaro che non era ancora il suo momento di morire; poi – ancora più chiaro – sarà lei, la mamma, che l’andrà a prendere quando sarà il momento. Sono tante le testimonianze che ci dicono questo. Persone che vivono una esperienza di pre-morte e la raccontano a noi, che siamo ancora viventi. La cosa, quindi, non mi meraviglia. Così come non mi meraviglia quello che mi ha detto un’altra amica: "Quando mi sono lanciata dal quinto piano perché volevo morire, mi sono sentita prendere in braccio". Si fratturò femore e bacino. Ora è viva.

Io non ci ho mai provato a darmi la morte, anche se in qualche momento di depressione il pensiero si è avvicinato, ma sono stato capace di svicolare in tempo. Mi piace vivere. Almeno per il momento, mi piace vivere. Mi piace la vita con quei suoi momenti di felicità e di tristezza, di euforia e di malinconia. Mi piace così com’è, come me l’ha data nostro Signore. "Chi vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua". Accidenti, che parole formidabili ci dice nostro Signore!

Rinnegare me stesso. La mia vita. Il mio essere. Quello che sono e sono stato. E poi prendere la croce, la croce di ogni giorno, quella che ognuno di noi si lamenta di avere. La croce da portare con sé è quella che ognuno merita ogni giorno.

Ma sai che ti dico? Quasi quasi la mia croce me la piglio e me la porto appresso sulle spalle tutti i giorni. Poi si vedrà…

martedì 9 novembre 2010

Smart


Sul Grande Raccordo Anulare (che da un po’ di tempo è diventato autostrada, non a pagamento) sfrecciano a 130 chilometri all’ora; io vado a 90-100. Se mi trovo in fila con la mia macchina, ce n’è sempre una che mi sorpassa a sinistra o a destra. Quando parcheggia lo fa di traverso. Chi la guida è palesemente più furbo di me; a lui tutto è concesso; o meglio, tutto si auto-concede, un po’ come fanno gli scooteristi, per i quali il codice della strada si direbbe che sia un optional da rispettare quando se ne ha voglia.

"E’ mai possibile – mi chiedo – che tutti quelli che guidano una Smart siano così tanto più furbi di me? E più furbi di tanti altri cittadini automobilisti che rispettano le code, i semafori, le precedenze e i limiti di velocità? C’è qualcosa che li differenzia in quanto tali o solo per il fatto che guidano una Smart?". La mia conclusione – personalissima – è che è la Smart a farli differenti. Se poi desidero approfondirne il motivo, direi che è una specie di complesso di inferiorità. Come avveniva per la Golf GTD.

Gli anni Settanta cominciarono per la Volkswagen con una forte crisi finanziaria. Aveva in linea in pratica un solo modello: il Maggiolino, affiancato con qualche piccola modifica di carrozzeria e aumento di cilindrata (da 1.200 a 1.300) dal Maggiolone. A poco era valsa l’introduzione di uno sfortunato modello a trazione sempre posteriore, che avrebbe dovuto essere l’erede del Maggiolino: la 411/412, rispettivamente di 1.500 e 1.600 di cilindrata.

Così a Wolsburg ebbero l’idea geniale: cambiare tutto. La rivoluzione fu affidata alla magica matita di Giorgetto Giugiaro e nel 1974 nacque la Golf. La trazione posteriore fu trasferita all’asse anteriore, migliorando guidabilità, tenuta di strada e abitabilità. La linea abbandonò la classicissima forma a uovo e adottò linee decise e spigolose. Fu subito un successo. Dalla matita di Giugiaro era già uscita la Passat l’anno precedente e seguirono la Scirocco e la Polo.

Ma il colpo di genio vero e proprio fu adattare il motore a benzina di 1.500 di cilindrata (poi diventato 1.600) al gasolio. Consumi ridottissimi e velocità di punta decisamente superiore alle vecchie auto motorizzate diesel che non facevano più di 120-130 chilometri all’ora. Il botto finale fu l’inserimento della sovralimentazione mediante compressore a turbina, così come era avvenuto con la sovralimentata a benzina (GTI). Il grosso dubbio che colse tutti gli esperti fu: "Il motore diesel così piccolo resisterà o esploderà?".

Non esplose. Non solo: chi guidava la Golf GTD doveva dimostrare a chi aveva auto a benzina che andava forte come lui, o anche di più. Era il complesso d’inferiorità che aveva il possessore di un’auto a gasolio nei confronti di chi ne aveva una a benzina. Prima del fenomeno Golf GTD, le vetture a gasolio erano una scelta "economica": il gasolio costava notevolmente meno della benzina e il ciclo Diesel (accensione per compressione, gasolio) aveva un consumo specifico inferiore al ciclo Otto (accensione per scintilla, benzina). Insomma, chi aveva un’auto a gasolio, lo faceva per risparmiare ed era considerato un po’ un automobilista di serie ‘B’.

Con la Golf GTD il mondo automobilistico cambiò: chi la possedeva, non solo spendeva di meno di carburante, ma andava anche come o anche più forte di chi aveva il benzina. Qui fu la rivincita del diesel sul benzina e di chi possedeva un’auto diesel nei confronti di chi ne possedeva una a benzina. La rivincita dal complesso d’inferiorità.

Oggi vedo un parallelo tra chi una volta guidava la Golf GTD (e doveva dimostrare a chi aveva un ‘benzina’ che andava più forte di lui) e chi guida una Smart (una specie di scarrafone, che ha più del giocattolo che della macchina), il quale deve dimostrare a chi possiede un’auto ‘vera’ che non solo va più forte (il che di per sé non è vero, ma chi guida la Smart ‘pesta’ sempre l’acceleratore), ma può fare una infinità di cose più di chi possiede una macchina ingombrante.

E’ la rivincita del piccolo scarrafone-giocattolo (il cui proprietario nasce con un complesso d’inferiorità) sull’auto vera e ‘deve’ dimostrare agli altri che a lui sono consentite più cose…

…fino a quando non si ribalta sui sampietrini romani!

lunedì 8 novembre 2010

Mi manchi




C’è sempre qualcosa o qualcuno che mi manca in qualche momento della mia vità. Così, ora una volta ora l’altra, mi manca un bastone al quale appoggiarmi nei momenti in cui sto per cadere e sento il bisogno di una mano vicina che me lo porga. Mi manca la corsa, di quando me ne andavo anche con la neve per terra ed ero vestito così strano, con cuffia di lana, maglione a collo alto, pantaloncini, calzamaglia e TRX Competition dell’Adidas, che mia figlia mi diceva: "Mi sembri il grillo parlante".

Mi manca la bicicletta, il vento in faccia, il manubrio da corsa, i pneumatici tubolari, le gambe che giravano da sole e quella volta che a Civitavecchia infilai il binario del treno e mi ritrovai a terra ridendo di me e pieno di escoriazioni. Mi manca la moto; il motore con tutta la sua cavalleria tra le gambe, che se vuoi sentire il brivido della velocità solo sulla moto lo puoi provare. E le curve dopo Maranello verso l’Appennino, dove andavo per fare le pieghe e ogni tanto si trovavano le piccole lapidi di chi aveva osato troppo.

Mi manca il paracadute; quel brivido prima di saltare che fa salire i battiti del cuore e la terra che si allontana a mano a mano che l’aereo sale; poi il ‘via’, il salto, il vuoto, la calotta che si apre, il controllo calotta e il silenzio totale che ti fa sentire in un altro mondo. Mi mancano i soldati che quando mi incontravano mi salutavano sorridendo; uno, al termine del suo periodo di naja mi disse: "Il più bel periodo della mia vita".

Mi mancano il nonno, zio Vincenzo, zia Caterina, i Natali vissuti con loro e i Capodanni coi botti. A tavola si era sempre un sacco di gente ed Ernesto e Antonio se ne inventavano sempre una per ridere e far ridere, anche quando attaccarono una chewing-gum alla neo-barba di Sergio, che ne andava tanto fiero. Mi manca la casa di Napoli; non ho mai sofferto tanto freddo come in quella casa nelle serate d’inverno; eppure nel mio ricordo c’è solo il calore umano che emanava da chi la viveva.

Mi manca Sissi, cognata-sorella che ha raggiunto il Padre troppo presto. Mi manca babbo, le sue opere liriche, che se ora mi viene un dubbio non so più a chi chiedere. Le sue sfuriate. I suoi ultimi giorni, le sue ultime ore, i suoi ultimi minuti.

Mi manca sempre qualcuno o qualcosa; anche se c’è, mi manca. Le sere vuote. Vicina ma troppo lontana, mi manchi tu.

venerdì 5 novembre 2010

Patria e patriottismo


Avrei desiderato commemorare anche io questo 4 novembre, ma senza fare ricorso ai soliti discorsi ufficiali o a frasi fatte. Mi è venuta in socorso una lettura che ho appena ultimato: "Memoria e identità", di Giovanni Paolo II. Nato come libro-intervista di due vescovi polacchi a Giovanni Paolo nel 1993, da questi è stato approfondito e allungato in alcuni concetti espressi nel corso della intervista. Nella sua forma definitiva, fu presentato nel febbraio del 2005 dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, poco più di un mese prima che il Grande Karol ci lasciasse per tornare al Padre. Da questo libro ho estratto i due concetti di "patria" e di "patriottismo". Come si può osservare, non sono concetti che appartengono solo ai militari, ma a tutta la popolazione di un Paese, ivi inclusi i sacerdoti. Personalmente, mi identifico appieno con le parole di Giovanni Paolo II. Leggiamo che cosa scrive.

Patria

L’espressione "patria" si collega con il concetto di "padre" (pater). La patria in un certo senso si identifica con il patrimonio, cioè con l’insieme di beni che abbiamo ricevuto in retaggio dai nostri padri. Significativamente molte volte si usa, in questo contesto, l’espressione "madrepatria". Per esperienza personale tutti sappiamo in quale misura la trasmissione del patrimonio spirituale si compia per mezzo delle madri. La patria dunque è l’eredità e, nello stesso tempo, è la situazione patrimoniale derivante da tale eredità; ciò riguarda anche la terra, il territorio. Ma più ancora il concetto di patria coinvolge i valori e i contenuti spirituali che compongono la cultura di una data nazione. Proprio di questo ho parlato all’Unesco il 2 giugno 1980, sottolineando il fatto che, persino quando i polacchi furono privati del territorio e la nazione fu smantellata, non venne meno in loro il senso del patrimonio spirituale, della cultura ricevuta dagli avi. Anzi, esso si sviluppò in modo straordinariamente dinamico. […]

Patriottismo

Il concetto appena svolto sul concetto di patria e sul suo legame con la paternità e con la generazione spiega in profondità il valore morale del patriottismo. Se ci si chiede quale posto occupi il patriottismo nel Decalogo, la risposta non dà luogo a titubanze: si colloca nell’ambito del quarto comandamento, il quale ci impegna a onorare il padre e la madre. E’ infatti uno di quei sentimenti che la lingua latina comprende nel termine ‘pietas’, sottolineando la valenza religiosa sottesa al rispetto e alla venerazione dovuti ai genitori. Dobbiamo venerare i genitori, perché essi rappresentano per noi Dio Creatore. Dandoci la vita, partecipano al mistero della creazione e meritano perciò una venerazione che rimanda a quella che tributiamo a Dio Creatore. Il patriottismo contiene in sé questo genere di atteggiamento interiore, dal momento che anche la patria è per ciascuno, in un modo molto vero, una madre. Il patrimonio spirituale che ci è trasmesso dalla patria ci raggiunge attraverso il padre e la madre, e fonda in noi il corrispettivo dovere della ‘pietas’. Patriotismo significa amore per tutto ciò che fa parte della patria: la sua storia, le sue tradizioni, la sua lingua, la sua stessa conformazione naturale. E' un amore che si estende anche alle opere dei connazionali e ai frutti del loro genio. Ogni pericolo che minaccia il bene grande della patria diventa occasione per una verifica di questo amore. [...]

sabato 30 ottobre 2010

Macinini



Il primo macinino lo comprai nella seconda metà degli anni Ottanta a Modena in un mercatino dell’antiquariato. Mi piaceva, era tutto di metallo con quattro colonnine ai quattro angoli. Non pensavo che la passione per i macinini mi avrebbe preso così tanto. Era bello e mi rievocava i tempi in cui per fare il caffè della mattina si macinavano i grani con il macinino in grembo.

Al primo seguì il secondo, poi il terzo… Ora sono una sessantina. Mi piaceva frequentare le fiere dell’antiquariato: mobili, monili, francobolli, cartoline, ferri da stiro, quadri, cose belle, cose brutte… e macinini. Come ne vedevo uno, il mio occhio si eccitava. Ne ho di tutti i tipi, vecchi e nuovi. Uno in plexiglass quadrato, due in bachelite (la nonna della plastica, con la quale venivano fatte negli anni Cinquanta anche le radio), di cui uno da viaggio, grande poco più di un pacchetto di sigarette. E ancora di legno, alluminio, ferro, rame, ceramica… Quelli più pesanti sono in ghisa e hanno anche la possibilità di essere fissati al tavolo con delle viti. Uno è da muro.

Quando mi trasferii a Roma dovetti comprare un mobile vetrina per contenerli, e nemmeno tutti, perché i più grandi (tra i quali un macinino militare che risale alla Prima guerra mondiale, in alto a sinistra nella foto) sono collocati: due, sopra lo stesso mobile; altri due, sopra il ‘mobile giallo’ (chiamato così dai miei), un troumeau che ha una paio di centinaia di anni e che è sempre appartenuto alla mia famiglia.

Mi piace l’idea di ridare vita e dignità a cose rifiutate da altri e che hanno vissuto nel grembo di tante persone. Quando si macinava il caffè si teneva, infatti, il macinino in grembo. E non c’è un altro oggetto della casa che sia stato tanto vicino a chi lo possedeva. Ridare dignità alle cose è come ridare dignità alle persone che le hanno possedute, soprattutto se queste cose sono state rifiutate e cedute da chi avrebbe dovuto, non proprio venerarle, ma almeno rispettarle.

Mi piace pensare che tutte le persone che hanno avuto un contatto così stretto con questi macinini me ne siano grate e che ogni tanto mi vengano a trovare e ringraziare per la dignità che restituisco a loro e alle loro cose. E’ una fantasia, lo so; ma di cosa viviamo noi quando lasciamo andare libera la mente se non di fantasia?

martedì 26 ottobre 2010

Neanderthal



Quello che sto per scrivere non ha alcun fondamento scientifico, ma mi aiuta nella vita di tutti i giorni a capire con chi ho a che fare, a difendermi e a non innervosirmi. La mia teoria è che l’uomo di Neanderthal non si è estinto, contrariamente a quanto afferma la Scienza. Se non si è estinto, continua a vivere tra noi, con tutte le sue differenze dal Sapiens.

Il Sapiens ha una intelligenza viva, capace di immaginare soluzioni a problemi che vanno al di là del contingente. L’intelligenza, la fantasia, l’immaginazione del Sapiens supera la povera capacità del Neanderthal a trovare soluzioni al di fuori della normalità. Il Neanderthal, quindi, sopperisce alla mancanza di intelligenza con la furbizia.

Se immagino il prototipo dell’uomo intelligente, il mio pensiero va allo scienziato e al filosofo, che non riesco a immaginare di indole cattiva. Chi invece non è dotato di intelligenza ha una indole cattiva: il Neanderthal, che invidia il Sapiens e cerca di superarlo con la furbizia. Cercando anche di fargli del male, se possibile, perché l’invidia (figlia della superbia) porta alla perfidia: il piacere di fare del male.

Nel quotidiano, questa caratteristica del Neanderthal si riscontra in ogni momento: superare la fila di automobili; cercare di fregare dando un resto inferiore al dovuto; chiedere soldi e non restituirli; ricorrere a raccomandazioni per ottenere ‘il posto’; appropriarsi delle idee di un altro e venderle come proprie…

Il Neanderthal non produce pensiero, ma ripete frasi e concetti espressi dai Sapiens, per fare bella figura e per esserne all'altezza. Parla degli altri e non di sé, il più delle volte con intento di fare del male e diffondendo la calunnia. Il Neanderthal non parla di sé perché è vuoto dentro e si appropria di quanto viene detto dai Sapiens, deformando la realtà perché non la capisce; e giudica. Giudica pesantemente le azioni degli altri e non conosce l’umiltà, dote che invece è del Sapiens.

Il Neanderthal, insomma, è cattivo, invidioso, ladro, calunniatore, egoista; al contrario del Sapiens, che è di indole buona, generoso, altruista. Dal Neanderthal ci si può aspettare una pugnalata nella schiena in ogni momento; dal Sapiens no, in virtù del suo carattere generoso e caritatevole.

Quando riferii questa mia teoria a una persona a me cara, si ribellò e mi disse che non era un modo cristiano di vedere i nostri simili. Eppure in un recente numero della rivista Focus (giugno 2010, nr. 212) ho trovato un articolo nel quale si afferma che alcuni scienziati hanno trovato nel DNA dei Sapiens tracce del DNA dei Neanderthal (fino al 4%). Secondo l’estensore dell’articolo, gli scienziati sostengono che Sapiens e Neanderthal si sarebbero accoppiati e l’estinzione del Neanderthal non avrebbe portato a una totale estinzione del loro DNA, che invece si sarebbe conservato nell’attuale Sapiens.

Fino a poco tempo fa consideravo la mia teoria sulla non estinzione del Neanderthal utile per la quotidianità ma bizzarra. Ora, dopo avere letto l’articolo di Focus comincio ad avere dei dubbi. Ha ragione la persona a me cara oppure la rivista che riporta pareri di scienziati? Personalmente, cerco di continuare sulla mia strada, che almeno mi preserva dalle pugnalate nella schiena.

mercoledì 20 ottobre 2010

Le tre categorie


Nel corso della mia vita mi sono trovato ad avere a che fare con tante persone, una diversa dall’altra e tutti diversi da tutti. Ma, sommando le esperienze, ho cercato di categorizzare queste persone con le quali venivo a contatto. Non tanto per dare uno schema alla mia vita, quanto per cercare di capire di primo acchitto con chi avevo a che fare. Ne sono venute fuori tre categorie: A, B e C.

La prima categoria ‘A’ è quella degli Affidabili. Sono persone che quando parlano sanno quello che dicono e che danno una certa sicurezza all’interlocutore. Sono quelli che quando dicono "Si fa", si fa veramente e quando dicono "Non posso" è vero che non possono. E’ la categoria di persone delle quali ti puoi fidare, senza alcun dubbio.

La seconda categoria ‘B’ è quella dei Buoni a nulla. Quelli che quando gli dici di fare una cosa gli devi dire cosa fare e come farla e quando l’hanno fatta devi anche controllare che l’abbiano fatta secondo le tue direttive. Anche questa è una categoria sicura, perché se hai capito che il ‘buono a nulla’ è effettivamente buono a nulla, sai che lo devi controllare in ogni momento. E la tua sicurezza deriva proprio dal fatto che lo devi controllare.

La terza categoria ‘C’ è quella dei Cazzari, quelli che ti dicono che sono capaci di mille cose e poi non risolvono niente. E tu li aspetti che ti risolvano i problemi, ma non accade niente. "Hai tuo figlio che deve fare il concorso? Ci penso io!" ti dice il Cazzaro. Poi non succede niente. "Conosco il sottosegretario Tal dei Tali, e vedi che la cosa si aggiusta" agginge sempre lo stesso Cazzaro. Immancabilmente segue il silenzio. Il Cazzaro è pericolosissimo, perché ti fa cadere in trappole da lui tese e che ti portano verso il nulla. E’ la razza peggiore dell’universo.

A queste categorie, quando desidero scherzare con gli amici, aggiungo la categoria ‘D’, quella delle donne. E sempre scherzando, dico che le donne non appartengono ad alcuna delle tre categorie precedenti perché saltano dall’una all’altra in modo subitaneo e non le puoi controllare. Non si può sapere se in quel momento appartengono alla categoria ‘A’, a quella ‘B’ o alla ‘C’. E quindi non le puoi controllare in alcun modo. Sono libere di agire come e quando a loro più piace: sono donne.

E’ tutto uno scherzo, naturalmente. Ma se fosse tutto vero?

sabato 16 ottobre 2010

Prigioniero in casa mia



Alle cinque del mattino del 25 marzo mi svegliai con un senso di arsura. Mi alzai per andare in cucina a bere e notai che lo sportello del mobiletto nel corridoio era aperto. “Che strano – pensai – non ricordo di averlo lasciato aperto ieri sera”. In sala notai pure che la porta-finestra che dà sul balcone era aperta e due macchie scure erano sul balcone. Accesi la luce e mi resi conto che erano due miei pantaloni che tenevo in camera da letto. Li presi e, nel tornare indietro, vidi la porta di casa semiaperta e non c’erano più le chiavi.

Mi resi conto di quello che era successo: qualcuno era entrato in casa mia dal balcone (abito al terzo piano), arrampicandosi dal tubo del gas. Andai in camera da letto per vestirmi e notai che anche i primi cassetti dei due comò erano aperti. Conferma: qualcuno è entrato e forse il senso di arsura era dovuto a qualcosa che mi è stato spruzzato in faccia; forse etere. Mi vestii e, facendo in modo che la porta di casa non si chiudesse accidentalmente, andai in garage (la chiave della macchina era insieme con le chiavi di casa).

In garage trovai il mazzo di chiavi su un lato del cofano della macchina e sull’altro lato i due comandi a distanza: quello del mio garage e quello del garage di mia madre. Qualcuno aveva anche frugato nella macchina, ma non aveva trovato niente. Chiusi e tornai su. Feci una ricognizione e mi accorsi che niente era stato portato via. Strano! Poi mi chiesi: “Ora che faccio, telefono ai Carabinieri? E cosa gli dico, che qualcuno è entrato in casa mia e non mi ha portato via niente? Mi rideranno in faccia”. Così decisi di rimettermi a letto. Presi anche sonno.

Nel corso della mattina, ancora intontito dal sonnifero che mi era stato spruzzato in faccia, andai dai Carabinieri per denunciare il fatto, ma nella sala d’attesa affollata aspettai molto tempo, perché nella notte si erano verificati molti furti in appartamento. Uno particolarmente drammatico. Addormentati i proprietari, i ladri avevano svaligiato l’appartamento, rubato la macchina e svaligiata anche la loro tabaccheria, entrando con le chiavi che avevano trovato in casa. Un’altra denuncia riguardava una signora che aveva avuto le sue oche uccise a fucilate dal vicino di casa. Realtà che supera la fantasia.

Decisi così di mettere i cancelli a tutte le finestre e porte-finestre di casa, compresa quella della camera da letto e quelle dei due bagni, che danno su una chiostrina, e per accedere alle quali occorre essere un alpinista provetto. Credetti per tutto un lungo periodo di essere tranquillo e che, vedendo i cancelli, nessun ladro avrebbe provato a entrare in casa mia. Mi sbagliavo.

Nel mese di settembre (non ricordo la data) mi accorsi, svegliandomi la mattina, che ci era stato un altro tentativo di effrazione. “Accidenti – pensai – non posso stare tranquillo nemmeno se ho i cancelli!”. Così decisi di far montare anche un allarme. Il tecnico, al quale mostrai il buco che era stato fatto in corrispondenza della maniglia della porta-finestra del balcone, mi disse che la tecnica è albanese, ripresa da romeni, e che consiste nel fare il buco con un trapano a mano e poi con qualcosa agire sulla maniglia per aprire la porta-finestra. Ma la seconda volta avevo anche i cancelli; come pensavano di entrare?

Ora con l’allarme non sono ancora sereno. La notte dormo, sì, ma mi sveglio sempre con un senso di ansia per quello che sarebbe potuto accedere o potrebbe accadere. L’ultima possibilità sarebbe quella di tenere una cane lupo addestrato e feroce sul balcone, che sbrani chi tenta di entrare in casa mia. Ma il dubbio che mi assale è questo: e se il cane lupo in un momento di ‘eccesso di zelo’ sbrana pure me?

giovedì 14 ottobre 2010

Gatti



Mi piacciono i gatti; anzi, a dire il vero, mi piacciono tutti gli animali, ma i gatti in particolare, così come tutti i felini. Ma rispetto a tutti gli altri felini, i gatti sono - diciamo così – più alla portata. Molte volte ho pensato a questo mio amore per i gatti e alla fine ho concluso che forse anche io sono un gatto: fiero, indipendente, superbo e amante delle coccole. Ma non di quelle che mi vengono imposte, piuttosto di quelle che cerco io e quando le voglio io.

Nella mia famiglia i gatti hanno sempre avuto un posto particolare. Dal nonno Romolo, che ne ha avuti tanti (tutti di nome Nelly), ma io ne ricordo uno, una siamese, che poi si perse, chissà come; ai miei genitori, che adottarono un cuccioletto la cui madre era stata sbranata da un cane da pastore tedesco; a me stesso, che ebbi il piacere di avere un gatto siamese al quale detti nome Chimmy.

Chimmy era particolare. Lo andai a prendere a Napoli (abitavo a Novara in quel tempo) ed era figlio di Gennaro, un siamese simpaticissimo strabico che con un piccolo pettine nella zampa era capace di pettinarsi (cosa che oggi sarebbe su YouTube). Rientrai a Novara con Chimmy sul sedile posteriore della mia macchina.

Chimmy si faceva fare di tutto: dal tagliare le unghie a fare il bagno seguito dalla passata di phon per asciugarlo. In quel periodo fumavo nazionali esportazioni senza filtro e quando terminavo il pacchetto e lo accartocciavo, Chimmy correva verso di me e si metteva in attesa che io glielo lanciassi. Lo lanciavo e lui correva a riprenderlo e me lo riportava (come un cane da caccia). La cosa la ripetevamo più volte, fino a quando lui, esausto, si lasciava andare sdraiato a terra come un tappeto. Allora capivo che il gioco era finito.

La sera, quando io ero davanti alla televisione con i piedi sul tavolino, lui mi montava sulle cosce e lì stava per un po’. Poi avanzava piano piano fino ad arrivare con il muso all’altezza del mio mento e cominciava a leccarmi con quella sua lingua rasposa. Era un modo per dimostrarmi il suo amore. Anche gli animali sanno dimostrare amore.

Poi un giorno sparì e per amor di patria non dico come, ma per me fu una sofferenza atroce. Ancora oggi ne porto le tracce nel mio animo. Ora il desiderio di prendere con me un gatto è forte, ma resisto. Forse due sarebbe meglio, ma resisto. Resisto non so fino a quando.

mercoledì 13 ottobre 2010

Preghiera di serenità


Che Dio mi conceda la serenità
di accettare le cose che non posso cambiare,
il coraggio di cambiare quelle che posso cambiare,
e la saggezza di distinguere tra le due.

Vivere giorno per giorno,
godersi un momento per volta,
accettare le avversità come una via verso la pace,
prendere, come Lui fece,
questo mondo corrotto
per quello che è, non per quello che vorrei,
confidare che Lui sistemerà tutto
se mi abbandonerò alla Sua volontà.

Che io possa essere
ragionevolmente felice in questa vita
e sommamente felice accanto a Lui
nella prossima, per sempre.

Reinhold Niebuhr
(1892-1971)

martedì 12 ottobre 2010

La mattina




Com’è bello svegliarsi la mattina presto e trovare il sole che sbadiglia al di là dell’orizzonte! Quando i più dormono ancora e io sono sveglio a rimirare l’alba. Colori soffusi, luci e ombre che si inseguono, attesa del giorno. Il giorno che verrà non mi ha ancora detto niente, non so niente di lui: è tutta un’attesa. Ci sarà un incontro felice? Conoscerò qualcuno che mi cambierà la vita? Dovrò fare qualcosa che non avrei mai immaginato prima? Non lo so. E’ tutto un futuribile.

La mattina qualche volta si presenta con i colori dell’alba; altre volte trovo solo un carboncino nero sul mio comodino. E allora il dilemma è questo: disegnare il giorno col carboncino o andare alla ricerca dei pastelli colorati? Il mondo è quello che mi disegno io, qualche volta col carboncino nero, qualche altra con i pastelli colorati. Dipende dai giorni, dipende da come mi sveglio.

Se mi sveglio con i pastelli colorati sul comodino, la giornata è tutta colorata e sa di primavera, anche se il cielo è plumbeo o piove. Se al contrario sul comodino trovo il carboncino nero, non c’è niente da fare, a meno che non mi metta alla ricerca in giro per casa dei pastelli colorati. Se funziona, la giornata ridiventa a colori, sennò resta scura.

La vita non è né passato (con i suoi rimorsi, rimpianti, rancori) né futuro (con le sue inutili aspettative), ma è l’attimo, il presente, il giorno d’oggi. Oggi è il giorno più importante della mia vita, per il solo fatto che lo sto vivendo. E’ in questo momento che devo vivere, né nel passato né nel futuro. Ma non è facile capirlo questo concetto. Non è facile farlo parte di me stesso.

Il passato mi tiene attaccato a una vita che non è più e che costituisce il bagaglio dei miei ricordi, che incombono ogni attimo e si portano dietro le occasioni mancate. Il futuro non mi può dire niente, ma la fantasia si sfrena immaginando cose nuove e talvolta disperandosi per un futuro che non trova, non vede, non riesce a immaginare quale sia.

Ma la mattina, quella col sole che deve ancora sorgere, è quella che dà speranza, la speranza di un altro giorno, la speranza di una nuova vita, la speranza di una rinascita.

domenica 10 ottobre 2010

Io e la mia chitarra




Heike Matthiesen, una delle più grandi interpreti di chiarra, è tedesca di Francoforte. Ha cominciato all’età di quattro anni a suonare il pianoforte e a 18 anni si è convertita alla chitarra. Il pezzo che suona è "Recuerdos de la Alhambra" di Francisco Tàrrega, spagnolo (1852-1909), chitarrista, compositore e pianista. La tecnica con la quale viene suonato questo pezzo è il ‘tremolo’, che consiste nel suonare la stessa corda con anulare, medio e indice.

Heike, quando suona questo pezzo, ha gli occhi chiusi e non guarda le corde, anzi sembra che sia in trance, in uno ‘stato alterato della coscienza’, direbbe la mia amica Patrizia, psicologa e psicoterapeuta; lo si verifica bene al termine della sua interpretazione, quando impiega un po’ di tempo a riprendersi dalla trance prima di concedersi agli applausi del pubblico. Lo stesso pubblico lo capisce e attende che lei si riprenda prima di applaudire.

Suonare la chitarra è così. E’ uno strumento che si abbraccia e si diventa tutt’uno con lui. Diventa parte di te stesso. Con la chitarra tra le braccia si entra profondamente in se stesso e ci si confessa. Si guarda dentro la propria coscienza e ci si esplora. Le onde del bene sovrastano quelle del male e tutto sembra che diventi un sogno.

Anche a me accade questo quando prendo tra le braccia la mia chitarra. Chiudo gli occhi, vado in trance e canto. La chitarra per me è un indice di buonumore. Se la prendo per cantare, è segno che sono allegro, è come uno di quegli strumenti che sono sul cruscotto della macchina e ti danno la temperatura dell’acqua o la pressione dell’olio. La mia pressione è indicata dalla chitarra.

La prima me la comprò mamma a Napoli, dicendo a mio padre che me l’aveva comprata il nonno, per non farlo innervosire per i soldi spesi. L’ultima, la quinta, la comprai qualche anno fa a Verona. Ora ne possiedo due. Una è da mio fratello, una a casa di mia mamma e una l’ho regalata. Ora l’una, ora l’altra mi hanno accompagnato per tutta la vita e quando ho desiderato raccogliermi in me stesso, ho sempre preso la chitarra tra le braccia e ho suonato e cantato.

Ora accade di rado che mi prenda il desiderio di cantare, ma quando accade è sempre una emozione forte. Può succedere anche che per l’emozione mi sgorghino delle lacrime dagli occhi. Io e lei in quel momento siamo tutt’uno e io l’amo e lei mi ama. Io e la mia chitarra.

sabato 9 ottobre 2010

C'è poco da capire



Era la settimana prima di Pasqua del 2007, la settimana santa; forse – se non ricordo male - era giovedì 5 aprile. Rientravo a casa da una commissione fatta sulla Cassia, quando in prossimità della Parrocchia Cattedrale della Storta mi venne in mente di riprendere la buona abitudine di far benedire la casa. Abitavo dal 25 giugno 2006 nella casa nuova, al terzo piano in un edificio nuovo sulla Braccianese.

Entrai nell’ufficio della Cattedrale. "Vorrei vedere un prete" chiesi alla signora che aveva l’aspetto di segretaria volontaria. Il prete c’era ed era nero-nero. Gli spiegai che dopo 38 anni e dopo la separazione da mia moglie ero tornato a essere ‘cives romanus’. Gli dissi ancora che avevo comprato casa e desideravo che lui la benedicesse. Era questa una usanza antica della mia famiglia. Mi rispose: "Oggi sono proprio dalle sue parti, ma non desidero che resti in casa ad aspettare me, verrò dopo le 18". Ci davamo il Lei, oggi ci diamo il Tu.

Poco dopo le 18 mi chiamò sul telefonino: "Fra dieci minuti sarò da lei". Scesi per accoglierlo al portoncino e salimmo in casa. "Cosa prende, don Pedro, un succo di frutta va bene?". Decidemmo per una spremuta di arance rosse. Sull’ampio balcone di casa parlammo per una mezz’ora e gli dissi anche del mio passato e della mia separazione. Poi entrammo in sala. Iniziò una vera e propria cerimonia di benedizione. Fece una prolusione e, sapendo che mia figlia si chiama Maria Vittoria, volle dedicare la benedizione della casa a Maria. Così mi trovai dopo tanti anni a recitare l’Ave Maria in una casa nuova, con un prete nuovo, nero-nero, e che veniva dalla Guinea Equatoriale.

Ave o Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte. Amen

La benedizione: in nome del Padre (ciaff, l’acqua santa verso la cucina) e del figlio (ciaff, l’acqua santa mi prese in pieno, forse lo fece apposta) e dello Spirito Santo (ciaff, verso il corridoio). "Meglio benedire tutta la casa, visto che è la prima volta" don Pedro si avviò verso la zona notte: corridoio, cameretta, camera da letto, bagno, per poi tornare indietro e benedire l’altro bagno. Gli aprii anche la porta dello sgabuzzino: "Un’ultima benedizione, non si sa mai, Satana si potrebbe nascondere anche qui" gli dissi. E sorridemmo tutti e due, ben consci del fatto che il Male, quando si deve nascondere, lo fa in noi stessi, non negli sgabuzzini.

In quegli ultimi tempi avevo pensato molto alla mia spiritualità, a cosa mi sembrava che mi mancasse e a come fare per ricostruirla. Avevo – come ho l’abitudine di fare sempre – usato la ragione. Del resto, la ragione è il dono più grande che penso di avere avuto da questo mistero che chiamiamo 'vivere’ e che facciamo fatica a capire. Il mistero che ci fa soffrire e godere a seconda dello stato d’animo. "Vorrei scambiare due parole con lei, don Pedro, se non le dispiace, ho bisogno di dirle qualcosa". Mi rispose che aderiva molto volentieri alla mia richiesta. Prendemmo un appuntamento per dopo Pasqua.

Quando arrivai da lui negli uffici della Cattedrale mi accolse con un sorriso che solo i popoli africani sanno offrire. Andammo subito in argomento: "Desidero riaccostarmi alla fede" gli dissi (non dissi né ai preti né alla Chiesa né alla religione, ma alla fede). "Ora ho bisogno di dirle a quale punto sono, affinché lei abbia una idea del mio status; forse quando parlerò dirò delle eresie, ma lei abbia pazienza". Si pose in ascolto. Ecco cosa gli dissi.

Da bambino (avrò avuto cinque o sei anni) qualcuno doveva avermi parlato dell’universo infinito e l’idea dell’infinito mi dava sgomento, in modo particolare quando la sera ero a letto. Mi attirava, facendomi pensare a qualcosa che non riuscivo a dominare col pensiero, ma mi dava sgomento e così dopo un po’ dovevo forzare la mente a dirigersi da un’altra parte. Da questo punto ero ripartito dopo i tanti anni di lontananza che attribuivo al fatto che da bambino mi avevano raccontato una religione per bambini e non una fede. Crescendo, quei dogmi religiosi non valevano più. Mi chiedevo altre cose. Mi chiedevo una fede, non una religione. Per questo mi allontanai dalla Chiesa.

Da questo punto di partenza, che ho ripreso di recente, mi sono detto che, se esiste un universo, questo, per il principio aristotelico di causalità, deve avere una causa. Non riesco a pensare che sia altrimenti. Se vedo l’effetto, deve esistere una causa. E la causa non può essere altro che l’Infinito. Lo possiamo chiamare Infinito, Essere Supremo, Dio o come ci pare a noi: è la causa, ciò che ha generato tutto questo che ci circonda, dall’erba del parco di casa mia all’ultima galassia che ancora dobbiamo scoprire. E’ la creazione. Questo è il primo e unico mistero. La creazione. Perché abbia creato non lo so e non riesco a capirlo. Avrò anche io i miei limiti. Del resto, anche nella vita di tutti i giorni entrare nella mente degli altri non è per niente facile. Ma sono sicuro che un giorno capirò, così come al liceo, quando in seconda classe sentivo parlare dai ‘grandi’ di equazioni differenziali e non capivo. Poi in quinta capii.

L’Infinito contiene tutto, spirito e materia: non potrebbe essere altrimenti, sennò non sarebbe infinito: il contenitore del tutto. Di materia so che sono fatto, perché mi tocco e me ne accorgo. Ma anche di spirito. Non mi si venga a raccontare che la mia fantasia è materia! E che la capacità di percepire – sia pure alla lontana – l’infinito è materia! Che quando ero bambino e rimanevo sgomento di fronte al pensiero dell’infinito ero solo materia! E allora perché le pecore non pensano quello che penso io? La creatività ci fa simili all’Ente Supremo, l’Infinito, o se vogliamo Dio.

Sono figlio di Dio e non mi meraviglia il fatto che lo dica quel giovanotto che ha vissuto circa 2000 anni fa: Gesù. Lui diceva di essere figlio di Dio. Ma certo che lo era, come lo sono io, non potrebbe essere altrimenti. Siamo tutti e due figli di Dio. La differenza sta nel fatto che lui ne ha avuto piena coscienza e ce lo ha voluto dire con tutte le sue forze, fino a sacrificare la propria vita per indicarci la strada. Io ora so che sono suo fratello. La condizione per partecipare alla festa è che segua la via che mi ha indicato. La festa è la comunione, sì quella che si prende la domenica quando si sta in ‘comunione’ con gli altri. L’eucaristia.

Partecipare alla festa e avere capito che Gesù e io siamo uguali è una gioia. Lui è uguale a me e sua madre è uguale a mia madre, perché come la sua ha dato la vita a lui figlio di Dio, così la mia ha dato la vita a me figlio di Dio. Ma per capire tutto questo ho bisogno di imitarlo. Seguire i suoi insegnamenti, quelli che sono scritti nei Vangeli. Leggere i Vangeli mi fa diventare capace di imitare Gesù e quindi prendere piena coscienza del fatto di essere anche io un figlio di Dio. E non devo temere il giudizio di Dio, così come mi è stato detto tante volte. E’ alla mia coscienza che devo rendere conto: è lì Dio.

Don Pedro mi ascoltò tutto il tempo senza proferire parola. Tranne un momento nel quale lo vidi sfogliare la Bibbia. Gli chiesi: "Ho detto forse una eresia?". "No, rispose, sto solo cercando il passo che conferma quello che sta dicendo". Quando terminai, parlò lui, con frasi tanto semplici che mi fece rendere conto del fatto che il nostro volgerci al Padre, il nostro avere fede in lui, il nostro affidarci a lui, il nostro credere in lui è tutto molto semplice, molto facile.

E che c’è poco da capire.

venerdì 8 ottobre 2010

Il terzo uomo



Il bambino che suona questo pezzo è coreano ed è così piccolo e suona tanto bene che mi chiedo cosa sarà capace di fare quando sarà grande e le sue dita si saranno allungate. Ho salvato tra i ‘preferiti’ molti dei suoi pezzi che sono pubblicati su Youtube. E ogni volta che li ascolto m’incantano. Qui suona il tema del film ‘Il terzo uomo’ (the third man). [Per vedere e ascoltare fai clic sulla freccia a triangolo]

Ora, senza volermi soffermare sul commento del film che fu diretto da Carol Reed nel 1949 e che vinse il Gran Prix per il miglior film al 3° Festival di Cannes (ricordo che la sceneggiatura fu scritta da Graham Green, il quale ne pubblicò una novella l’anno seguente), mi chiedo semplicemente dov’è il terzo uomo. E mi rivolgo a me stesso e mi chiedo: "Dov’è il terzo uomo?".

Il primo è senz’altro quello che cerco di essere e mi sforzo di apparire agli altri con tutte le mie forze. L’uomo forte, superbo, orgoglioso, pieno di sé, che non ha nulla da temere e che nella sua vita ha realizzato tante cose delle quali ne mostra vanto. Quello che non ha sbagliato mai e le cui decisioni sono sempre state congrue agli avvenimenti e alle situazioni. Quello che ha vissuto gioie e dolori e li ha saputi amministrare con saggezza e ponderatezza.

Il secondo è quello che vedono gli altri. Uno, nessuno e centomila, direbbe Pirandello. Centomila sono quelli che mi vedono e centomila le loro impressioni su di me. Il secondo uomo è centomila, perché ogni persona che mi vede si fa una idea di me che è diversa da quella di tutti gli altri. Sono così: ora buono, ora cattivo; ora generoso, ora tirchio; ora amorevole, ora incapace d’amare; ora felice, ora infelice; ora superbo, ora umile; ora litigioso, ora accondiscendente. Mille e una persona, anzi centomila.

Ma il terzo uomo dov’è? Non lo vedo, non riesco a trovarlo. So che esiste e percepisco la sua presenza, ma non riesco ad acchiapparlo. Forse perché ci sono sopra; perché lui è esattamente dentro di me. E’ come quando si è esattamente sopra il Polo Nord. Non lo percepisci, perché la bussola non segna più niente e non sa dare risposta alla tua domanda: "Dove sono?". Il mio Polo Nord è dentro di me e forse non lo vedrò mai. Non saprò mai chi sono veramente.

Ci sono sopra con i piedi, con l’anima, con il cuore, ma non ho alcuno specchio che me ne rimandi l’immagine, proprio perché ci sono sopra. Non saprò mai chi sono ed è questo, più di ogni altro, il vero mistero della mia vita.

giovedì 7 ottobre 2010

L'infinito




Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.

Fra tutte quelle che conosco, L’infinito di Giacomo Leopardi è la poesia che più m’incanta, m’inebria, m’ipnotizza. Da piccolo – avrò avuto cinque o sei anni – ricordo che rimanevo sgomento al pensiero dell’infinito. Chissà, forse qualcuno mi aveva parlato dell’infinità dell’universo e io cercavo di immaginarlo, ma la cosa mi dava inquietudine. Ricordo in particolare che qualche sera, nel letto, in attesa di prendere sonno, mi tornava alla mente il pensiero dell'infinito, che mi affascinava e mi turbava. Allora lo cercavo e poi lo allontanavo, distraendone la mente. Forse Leopardi mi evoca quel periodo dell’infanzia.

Infinito. Nonostante il parere dominante della critica ufficiale, io credo che la ricerca dell’infinito di Leopardi sia una ricerca di Dio. Andarsene sull’ermo colle e guardare a perdita d’occhio, anche se c’è una siepe che gli impedisce lo sguardo d’insieme, cercare interminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete è un allontanarsi dalla realtà, dalla materia, dal finito, dal contingente. E’ cercare qualche cosa che non si riesce a catturare con i cinque sensi.

E allora Leopardi se ne va sull’ermo colle a contemplare e forse si può anche immaginare che sublimi il proprio pensiero fino all’estasi. Contemplazione ed estasi sono forme di preghiera superiore, quando termina la "ruminatio" (come la chiama santa Teresa d’Avila) e le parole lasciano lo spazio al silenzio. Alla contemplazione e all’estasi.

Io nella mia forma di preghiera sono ancora alla "ruminatio" di santa Teresa, ma mi basta affacciarmi al balcone per ritrovare quel senso d’infinito che cercava il Poeta. La vista a perdita d’occhio mi fa pensare che non ci sono ostacoli fra me e l’infinito, fra me e l’eterno. E la mattina presto, quando il sole ancora deve sorgere, ma già illumina una parte di cielo, penso che l’oggi è un altro giorno da vivere intensamente. Da vivere intensamente alla ricerca dell’infinito. Alla ricerca di Dio.

mercoledì 6 ottobre 2010

Il Professore

Il Professore, prima di vederlo, bisogna telefonare e superare due livelli: la segretaria e l’assistente. Risponde la segretaria che ti dà l’appuntamento agognato. Ho telefonato a settembre e mi ha dato l’appuntamento per novembre. Poi, forse per intervento del mio santo protettore, la segretaria mi ha telefonato l’altro ieri e mi ha detto: "Le andrebbe bene se anticipassimo l’appuntamento a martedì 5 ottobre alle 19.10?". "Certo che mi andrebbe bene, grazie" ho risposto.

Così ieri sono andato all’appuntamento. Ma siccome non conosco la piazza dove il professore ha lo studio privato (né conosco la zona), e siccome la Cassia a quell’ora è intasata come una via del centro, mi sono mosso da casa un’ora e tre quarti prima. E così, visto che ho avuto una botta di fortuna a indovinare la via e che c’era poco traffico e ho trovato subito parcheggio, sono arrivato un’ora prima. Accade a chi abita a Roma e si deve spostare in macchina: puoi arrivare un’ora prima o un’ora dopo, senza che tu ne abbia merito o colpa.

Mi sono fatto un giro della piazza e ho visto due "pizzardoni" (vigili urbani, un maschio e una femmina) che facevano multe a macchine in sosta (forse vietata per Comuni padani, ma qui siamo a Roma!). Ho deciso quindi di piantonare la mia macchina fino a quando, con mio sommo piacere, se ne sono andati. Così, liberatomi dell’angoscia della possibile multa, sono entrato nello studio del Professore. Sala d’attesa con musica classica. Un paziente anelante parlava al telefonino con spiccato accento napoletano. Una coppia seduta di qua e una di là.

Mi sono rivolto alla segretaria, che mi ha dato un foglietto da riempire con i miei dati, e che ho restituito al più presto. Mi sono messo quindi a leggere una rivista (vecchia di quattro mesi) e ho cercato di trascorrere il tempo senza pensare. Intanto i clienti si avvicendavano uno ogni quarto d’ora. Il conto è presto fatto – mi sono detto – se il Professore lavora in studio dalle 16 alle 20, a 250 euro a visita, quant’è in totale? Non mi sono voluto dare risposta.

E’ trascorso un po’ di tempo, fino a quando sono stato chiamato da un giovane medico dal nome esotico, ma non era il professore: era l’assistente. Siamo entrati in una stanza e mi ha posto alcune domande mentre riempiva una scheda. Poi mi ha rifatto accomodare nella sala d’attesa. Mi sono immerso ancora nella lettura della rivista, fino a quando sono stato chiamato dalla segretaria che mi ha accompagnato nello studio del Professore. Questi mi ha posto alcune domande, ha fatto alcune obiezioni e infine mi ha detto: "Mi faccia sentire la pancia".

Mi sono steso sul lettino e lui mi ha tastato e auscultato la pancia, fino a quando ha emesso la diagnosi: "La sua peristalsi va bene". Ma ha aggiunto: "Bisogna fare una colonscopia". E ancora: "Deve prenotare; questo è il numero di telefono dell’ospedale e questo il numero della clinica dove opero; all’ospedale ci vorrà del tempo; provi anche alla clinica". "Grazie Professore, buona serata". Alla segretaria pago 250 euro (con ricevuta fiscale, però).

martedì 5 ottobre 2010

Kiotto e i suoi fratelli



Kiotto è il mio convivente ed è un vero amico: non chiede mai niente, è sempre disponibile quando gli voglio fare due coccole e soprattutto non discute mai le mie decisioni. Me lo regalò – pardon, dato in affidamento - mio nipote Luciano (figlio di mia sorella Marica). Un giorno andai a trovarli e vidi il grande peluche sul divano. A Luciano lo aveva appena dato la nonna Laura, ma lui non sembrava particolarmente entusiasta del regalo.

Si sa, oggi i bambini di sette anni preferiscono giochi più tecnologici. Luciano ha un giochino portatile con videogiochi e con il quale si collega via bluetooth con una sua amichetta e fanno lo stesso gioco. Oppure si diverte a fare complicate costruzioni con il Lego e tanto di foglio di istruzioni. Quando in casa arrivò un aggeggio elettronico (non ricordo però che cosa fosse), mia sorella era in difficoltà a farlo funzionare. Glielo spiegò Luciano. E quando la mamma gli chiese: "Ma come fai a saperlo?". Lui candidamente rispose: "L’ho letto sul libretto delle istruzioni".

Si capisce che un pupazzo di peluche non poteva interessarlo più di tanto. Così gli chiesi: "Me lo regali?". Senza esitazione rispose: "Sì". Quando andai via, presi in braccio il grande peluche, destando l’ilarità di mia sorella, alla quale la scena sembrava molto buffa: un sessantenne con un orso di peluche in braccio non è scena di tutti i giorni. Ma io imperterrito mi diressi alla mia macchina. Poi lo feci accomodare sul sedile anteriore destro, lo legai con la cintura di sicurezza, facendo bene attenzione che la parte diagonale della cintura fosse tra lui e lo schienale (altrimenti gli avrebbe dato fastidio alla faccia) e ci avviammo insieme verso casa.

Appena entrati, gli feci fare un giro delle stanze per fargli prendere confidenza con l’ambiente. Allo stesso tempo gli presentai quelli che sarebbero diventati i suoi fratellini: due più grandi e due più piccoli. Dei due più grandi, uno ha deciso di sistemarsi sulla mensola dello specchio del bagno piccolo, l’altro sul comodino in camera da letto. Dei più piccoli, il primo (quello con la maglia dell’Italia) si è innamorato della chiave della macchina e non si staccano più, l’altro (col costume di Babbo Natale) ha fatto per diverso tempo il caporedattore della mia rivista online (Pagine di Difesa, che ho sospeso nel marzo 2009) e ora vuole stare sempre vicino al computer (la redazione).

Dopo il giro della casa, ci accomodammo in sala e gli chiesi dove avrebbe gradito sistemarsi, ma era palese che il posto sul divano era di suo particolare gradimento, in modo da poter guardare la televisione. E’ noto, infatti, che agli animali d’appartamento piace molto la tv.

Poi gli dissi: "A proposito, come ti chiami?". Lui non mi rispose. Gli ripetei la domanda ancora un paio di volte, ma continuò a non rispondere. Forse non lo aveva mai chiamato nessuno in passato. "Beh – conclusi – visto che non ti decidi, decido io. Ti chiamerò Kiotto. Così, visto che sei figlio di Orsa, per l’anagrafe sarai Orsa-Kiotto". Mi sembrò che il nome gli fosse gradito e che annuisse.

Da allora ci facciamo compagnia tutte le volte che sono a casa e cucino o mangio o guardo la tv o leggo seduto sul divano. Quando vado a letto no: a lui piace molto guardare la televisione, anche se è spenta. Se sono in sala e mi va di chiacchierare, è sempre disponibile. Mi ascolta con molta attenzione e con gli occhi sempre puntati sui miei. Lui sì che sa ascoltare, non come certa gente che quando parli si distrae oppure ti interrompe. Kiotto è educatissimo e non interrompe mai. Ascolta e medita. Medita. Medita.

lunedì 4 ottobre 2010

Buon compleanno cucciolo



Oggi mia figlia compie 31 anni. Ho provato a farle gli auguri al telefono, ma a quello di casa non risponde e al portatile si è inserita la segreteria telefonica. No problem, lo so perché. Il giorno del suo compleanno Maria Vittoria spegne tutti i telefoni e dedica la giornata a se stessa e a Matteo. E allora le ho postato gli auguri sulla sua pagina di Feisbuc.

Un paio di settimane prima avevo accompagnato Mima (così Maria Vittoria chiama la madre) dai genitori a Parma, dove desiderava partorire. Andammo in macchina e, per non sottoporre mia moglie a uno strapazzo, facemmo sosta in un albergo di Siena, al quale avevo telefonato, oltre che per prenotare, anche per chiedere se accettavano animali (avevamo un gatto siamese). Poi rientrai a Civitavecchia, dove facevo servizio.

Il 3 ottobre, alla scadenza dei ‘conti’ giunsi a Parma. Il 4 mattina Adriana e io facemmo una passeggiata al centro. Al rientro a casa lei telefonò al ginecologo dicendogli come si sentiva. Questi le disse di preparare la borsa perché la faceva ricoverare all’ospedale, dove andammo nel pomeriggio. Alle 18.30 iniziò il travaglio ed entrammo tutti e due in sala parto. Tre quarti d’ora dopo nacque Maria Vittoria.

Faccio fatica a descrivere l’emozione enorme che provai. Ho sempre detto – e lo dico ancora – che per me fu il giorno più bello della mia vita. Assistere alla nascita di mia figlia fu quanto di più grande io abbia vissuto in vita mia. Di tutte le foto che la ritraggono (a casa ne ho fatte incorniciare otto tutte insieme di vari momenti della sua vita) quella che più mi piace la ritrae nel giorno del suo matrimonio con Matteo.

Buon compleanno cucciolo, sii felice.
E che il Signore ti benedica.
Pipo

domenica 3 ottobre 2010

Automobilibreria




La mia passione per le macchine – stando a quanto dice mia madre – risale a 40 giorni dopo la nascita. Il nonno con la sua Topolino C mi riportò a Sabaudia (dove risiedevano i miei) da Napoli (dove mamma era andata a partorire a casa di sua madre). Dice mamma che per tutto il viaggio non chiusi occhio.

A Izmir (Smirne in italiano), dove mio padre era stato trasferito, c’erano tante macchine americane: da quelle tutte bombate degli anni Quaranta a quelle con le pinne degli anni Cinquanta. Erano tutte dotate di motori 8V con cilindrate non commensurabili con quelle italiane. E col cambio automatico. Che suono fantastico emanavano quei motori!

Rientrati in Italia, mio padre comprò una Giulietta TI (poi ebbe di seguito una Giulia 1300, una 1750; una Giulia 1300 TI e una GT Junior – cinque Alfa di seguito); e lì si scatenò la mia passione. Sapevo riconoscere marca e modello della macchina solo sentendo il rombo del motore. Col foglio rosa, babbo mi faceva guidare la 1750; con la GT Junior (ormai avevo preso la patente e mi ritenevo esperto) facevo dei numeri da pazzi. Ricordo una curva per immettermi sulla via della Pineta Sacchetti che facevo in sbandata controllata e controsterzo. Che follia!

Ne ho avute tante di macchine (forse una ventina), ma quelle che mi facevano veramente sentire il piacere della guida sono state due Giulietta (una 1600 e una 1800). Sembrava che andassero su due binari. Incollate alla strada. Quando avevo la 1800 volli provare una BMW 1600: mi sembrava di essere su quattro saponette.

Se ne avessi la possibilità, comprerei un capannone e ci metterei la mia collezione di macchine. Ma non me lo posso permettere e quindi mi adatto per ora a collezionare modellini in scala 1/43. La prima collezione, alla quale mi dedicai una trentacinquina di anni fa, è di auto antiche della Rio (azienda che non c’è più) ed è sistemata in una bacheca che tengo nel bagno grande.
Poi ho una collezione di venti Ferrari. Di recente ho iniziato a collezionare modellini di Fiat e Lancia.

Ma non ho molto posto in casa. E allora l’unica soluzione, per non impolverarle e per tenerle bene in vista, si è rivelata quella di porle nella libreria. Non è una gran libreria (saranno 350 libri sì e no), e c’è spazio per i modellini. Così la mia libreria sta diventando una automobilibreria.

sabato 2 ottobre 2010

Feisbuc, amici e farisei

Adesso sono tutti pazzi per Feisbuc. E' sulla bocca di tutti, anche di chi non ci capisce niente di Internet e spara asserzioni solo per sentito dire. Ne ho addirittura sentito parlare in chiesa durante una omelia. Feisbuc di qua, Feisbuc di là, tutti pazzi per Feisbuc.

Su una pagina di uno che mi aveva invitato a essere un suo amico ne ho trovati 2.500. Cioè questo tipo avrebbe 2.500 amici. Az! Beato lui. Io quando conto gli amici faccio fatica a contare tutt'e cinque le dita di una mano. Ma forse lui e io attribuiamo alla parola "amico" un significato diverso.

Di quelli che avevo a Verona ne saranno rimasti due; tre? No, forse uno. Qui a Roma il titolo di amico viene concesso con una faciloneria inimmaginabile. Poi, se gli concedi la fiducia che di norma va concessa a un amico (e che lui impappolandoti con le parole si era guadagnato), scopri che sotto la pelle di pecora c'è il lupo. Anzi, talvolta anche il pescecane.

Accipicchia che sberle che mi sono preso! In questo anno 2010 ne potrei contare forse cinque o sei. Lupi, pescecani e farisei. Ah, questi ultimi sono i più pericolosi (anche più dei pescecani), perché ti prendono sottobraccio, avvalendosi della loro ortodossia alla Legge, e ti infilano il coltello nel fianco.

Il lupo lo capisco, è fatto così: ha bisogno di uccidere per vivere. Anche il pescecane ha la sua giustificazione: se non mangia, non campa. Ma il fariseo no! Lui ha di che campare e ha anche la sua fede. Ma quella fede è ostentata, quindi non è sincera; ma agli altri lo appare. E così, prendendoti sottobraccio ed esibendoti la sua fede, ti pugnala alla schiena mentre ti abbraccia.

Gli amici (quelli veri) danno; non chiedono, non insegnano e non ti fanno del male.

Non è una gran giornata.

Oggi non è una gran giornata. Così come mi è accaduto ieri, mi sembra di avere un fiammifero acceso nella pancia. E la cosa determina anche un certo cattivo umore. Peccato, perché poco fa mi ha telefonato una persona simpatica che avrebbe desiderato uscire con me, ma a me non piace trasferire il mio cattivo umore sugli altri. Perciò per ora credo che me ne resterò a casa.

Un episodio simpatico, invece, è quello di una telefonata che mi è giunta da parte di un'azienda che organizza e conduce corsi di informatica. "Buon giorno - mi dice la simpatica voce di una giovane donna - siamo l'azienda XY e teniamo corsi d'informatica bla bla bla...". La lascio finire e poi dico: "Io sono laureato in informatica". La cosa non è vera, ma si è rivelata un ottimo stratagemma per liberarmi degli scocciatori che vogliono vendere prodotti vari per telefono.

Una volta mi telefonò un'altra voce femminile che desiderava vendermi dell'olio abruzzese. Io risposi che possiedo delle terre nel teramano dove produco olio. Anche in quella occasione, così come quella di oggi, la signorina desistette (si scrive così?).

Ho pensato che ci sono almeno due modi per rispondere a queste intrusioni telefoniche in casa mia. Il primo è lasciarmi ingaggiare in una discussione sulla opportunità di disturbare chi si sta facendo i fatti suoi, ma la disputa mi rende poi nervoso. Il secondo è rispondere subito: "Non mi interessa", ma la scortesia non paga. Confesso che quest'ultimo l'ho adottato più volte. Ma quello di oggi - ho notato - mi lascia più di buon umore.

Dai Giovanni, vedi che anche oggi lo raddrizziamo, anche se resta il fiammifero acceso nella pancia.